Non scherziamo col fuoco
Non è tempo di aumentare la spesa pubblica corrente né di ridurre le entrate, troppo elevato il debito dell’Italia e l’onere degli interessi, che, finora in ribasso, potrebbe nei prossimi anni risalire.
A fine anno 2017 il debito pubblico era 2.256,1 miliardi di € contro 2.219,5 di fine 2016. E’ vero come si legge in questi giorni che nel corso dei primi due mesi del 2018 sembra stia scendendo per la prima volta e che il rapporto debito pubblico/Pil è sceso al 131% a fine 2017, rispetto al 132% di fine 2016 e quindi meno preoccupante qualora l’economia continuasse la sua fase di crescita. Sappiamo che aumentando il Pil (nel 2017 del 1,5%),che sta al denominatore del rapporto, l’incidenza migliora. Tuttavia in valore assoluto rimane sempre il più alto debito della U.e.
Un debito così pesante è costato al Paese in 10 anni circa 760 miliardi di interessi (2007-2016) e, dopo i segnali di aumento dei tassi in Usa e la fine a settembre degli interventi sui titoli di stato annunciati dalla Bce, è possibile che l’onere derivante dagli interessi sul bilancio pubblico sia destinato a salire nei prossimi anni.
Vero è che nel 2012 l’onere degli interessi era ben 83 mld, ridottosi a 67 mld di fine 2017, con un risparmio in 5 anni di circa 20 mld, quasi una finanziaria. Delta speso per stimolare la ripresa.
Tuttavia col paventato rialzo dei tassi si potrebbe nel giro di pochi anni ritornare alla situazione del 2012 e le sbandierate promesse della politica in campagna elettorale di aumentare le spese o di ridurre le imposte, dovrebbero rientrare rapidamente o sarebbero benzina sul fuoco di un debito che sta diventando sempre più una montagna difficile da scalare.
Tenere sotto controllo tale enorme passività non è semplice perché non tutto dipende dalle azioni del governo e della politica, bensì anche da situazioni esogene sui mercati finanziari internazionali, che incidono sul monte interessi da regolare ogni anno.
Il combinato effetto del termine del ‘quantitative easing’ da parte della Bce e della politica fiscale e monetaria intrapresa da Trump da una parte e dalla Federal Reserve dall’altra, potrebbe generare una spirale di aumento dei tassi più veloce di quella preventivata fino a pochi mesi fa da tutti i più accreditati analisti.
L’effetto del termine programmato del q.e. e dell’aumento graduale dei tassi in Usa è stato già previsto e digerito dai mercati, quello che invece i mercati temono e non sanno calcolare sono invece gli effetti, che potrebbero essere dirompenti, della riforma fiscale di Trump varata a fine 2017, non solo nel commercio internazionale, ma pure sugli equilibri valutari e finanziari.
Finora le multinazionali americane se avessero voluto riportare in patria gli utili da vendite all’estero avrebbero dovuto pagare un’aliquota del 35%, con la nuova legge pagheranno un’una tantum dell’8% se investiranno in economia reale e del 15% se reinvestiranno in attività finanziarie.
La stima di quanto parcheggiato all’estero da società come Apple, Microsoft, Google, Oracle etc. (circa 150 società) è di circa 2.000 miliardi di dollari.
Lo scudo fiscale è stato accolto da subito positivamente dalla Borsa Usa, in quanto le grandi società quotate potrebbero decidere di destinare parte di queste risorse ai loro azionisti mentre nel medio e lungo termine si prevedono effetti positivi da investimenti, rimpatrio di lavorazioni esternalizzate e maggior occupazione sul suolo americano, obiettivo primario di Trump.
Rimane l’incognita degli effetti di tale massiccio spostamento sui mercati obbligazionari. Un analista svizzero ha calcolato che circa 1.100 miliardi sia investito in titoli liquidi e pertanto parzialmente rimpatriabili velocemente. Una cifra enorme e che equivale al controvalore dei titoli Usa in mano alla Cina. La quota cash è minima, circa il 10%, il resto investito in bond, 50% titoli corporate, 40% in bond governativi e il 10% in un mix di titoli obbligazionari.
A tale proposito Credit Suisse stima che l’intero portafoglio obbligazionario detenuto all’estero da tali aziende americane possa essere rimpatriato nel giro di due anni e destinato ad operazioni di buyback (acquisto azioni proprie), fusioni, acquisizioni e quindi a operazioni che daranno seguito alla liquidazione di tale immenso patrimonio. Le dimensioni e la velocità di tali spostamenti sono tuttora incerti.
Lo shock che potrebbe subire il mercato obbligazionario è paragonabile a quello che si registrerebbe se la Cina decidesse di vendere i titoli di stato Usa in portafoglio.
Se a tutto ciò aggiungiamo che la riforma fiscale Usa aumenta il fabbisogno del governo americano che da quest’anno dovrà aumentare l’emissione dei titoli di stato, la prospettiva di un aumento dei tassi più veloce del previsto, generata dall’aumento dei rendimenti è nello stato delle cose. I prezzi scenderanno e i rendimenti saliranno.
L’impatto ci sarà comunque anche se, invece di liquidare subito le loro posizioni, le aziende Usa decidessero di tenere i titoli sino a scadenza. Il mercato si troverebbe comunque senza dei compratori importanti.
E non è finita qui l’incertezza che regna sovrana nei mercati. Che l’aumento dei tassi e dei rendimenti non sia una passeggiata lo conferma infatti la tendenza del bond decennale Usa in marcia verso la così detta soglia del dolore del 3%, mentre i titoli di stato Europei viaggiano a latitudini decisamente inferiori (Italia inclusa). Tale situazione ha ripercussioni sulle quotazioni azionarie della borsa di Wall Street e la possibilità di un freno inaspettato alla prima economia mondiale, nonostante lo stimolo fiscale cercato da Trump. Situazione che in quanto tempo attraverserà l’Atlantico e si ripercuoterà in Europa?
In tale situazione di incertezza è pertanto a nostro avviso opportuno tenere sotto controllo l’entità dei debiti ed il loro costo, anche se sarà una delle imprese più difficili nei prossimi anni se non mesi, sia per gli stati indebitati come l’Italia che per le imprese che vi operano. Di tale situazione di incertezza e di pericolo, al momento, solo il Governatore Draghi di Ue è cosciente e tiene duro nella politica del contenimento dei tassi, nella speranza che sia tempo guadagnato e possa portare un miglioramento dei conti pubblici degli stati Ue e ad un progressivo irrobustimento del sistema bancario, appesantito dalle sofferenze accumulate nel periodo di crisi. E sul sistema bancario pende anche l’ipotesi di cominciare a pesare diversamente il loro portafoglio titoli da parte degli organai di controllo Ue, per cui anche da tale versante qualche pericolo sulla sottoscrizione dei titoli pubblici da parte delle banche italiane può verificarsi.
Purtroppo non sembra che la politica Italiana si renda completamente conto della situazione di incertezza generale e non si preoccupi più di tanto che nel 2019 al posto di Draghi potremmo avere il Governatore della Bundebank e quindi possa verificarsi un conseguente inasprimento della politica monetaria ed un aumento del costo del denaro e maggiori vincoli per il sistema bancario Italiano. Una situazione ben poco favorevole per collocare il debito pubblico e difficilmente sostenibile dal nostro Paese se l’avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi), anziché aumentare, comincerà a diminuire per aumento della spesa pubblica o la diminuzione degli introiti fiscali.