BANCHE, UNA VORAGINE DA 36 MILIARDI
Lo sapevano già gli addetti ai lavori, meno attenta invece l’opinione pubblica: il sistema bancario italiano era ancora gracile a causa della crisi che aveva prodotto un carico enorme di Npl, (crediti in sofferenza non recuperabili) e della rincorsa di tutte le banche a cederli quanto prima al fine di liberare risorse per tornare a fare il loro mestiere.
Il mestiere delle banche che è la loro ragione di esistere in una sana economia di mercato, è quello di raccogliere, custodire e remunerare il risparmio e nel frattempo accordare credito alle imprese e famiglie meritevoli, il tutto a tassi e condizioni accettabili nel contesto pur difficile dell’economia nazionale in lenta e contrastata ripresa del Pil.
Purtroppo l’effetto collaterale dello spread tra Btp e Bund ufficialmente da giorni sopra i 300 punti base ha creato una voragine nei conti della banche, calcolabile attorno ai 36 miliardi di €, con il crollo delle capitalizzazioni delle banche italiane che hanno una parte importante del loro attivo investito in titoli di stato italiani.
Si va dal -40% di Montepaschi (-1,47 miliardi) al -22% del Credem (-494 milioni) al -35% di Banco Bpm (-1,5 miliardi) senza contare i due grandi colossi bancari del nostro paese , Intesa San Paolo – 35% (-17 miliardi ) e Unicredit -30% (-11 miliardi ). Un crollo attribuibile allo spread passato da 150 punti base ai 300 dei giorni nostri in quattro mesi.
Mentre i Btp cedevano, gli investitori vendevano i titoli delle banche, andando oltre alla perdita effettiva di valore dei soli Btp: il portafoglio dei titoli posseduti dalle banche è attorno ai 160 miliardi di euro, quindi la perdita accumulata doveva assestarsi attorno a circa 4 miliardi, mentre i titoli bancari in borsa hanno perso nove volte tanto.
A cosa attribuire questo eccesso di vendite? A nostro avviso il mercato sta scontando qualcosa in più rispetto allo spread, ma che ad esso è direttamente collegato. Gli investitori temono che il sistema bancario italiano non ce la faccia a risollevarsi e quindi si sbarazzano di azioni ritenute troppo a rischio e per niente profittevoli.
Intanto in mercato mette già in conto la bocciatura prevista per fine ottobre del rischio Italia da parte delle agenzie di rating. Il declassamento dei titoli di stato italiani a livello junk (spazzatura) impedirebbe agli istituti di credito di approvvigionarsi sui mercati a costi ragionevoli, visto che le loro emissioni obbligazionarie sconterebbero lo stesso destino dei Btp.
Con meno liquidità e meno forza nel capitale le banche potranno fare meno prestiti e quindi avranno meno capacità di generare utili. Ciò significa avere meno capitali per far pulizia di bilancio e dato che queste pulizie sono comunque imposte dalla Bce, il mercato teme una nuova stagione di aumenti di capitale a cui non vuole partecipare.
Tutti numeri teorici che la borsa sconta ma che indicano il danno già fatto dall’incertezza introdotta dal Def contrastato e tuttora in discussione.
Ci preme quindi analizzare in proposito il caso emblematico di banca Mps, utile ai non addetti ai lavori e a chi non crede alle difficoltà del sistema bancario.
Tale situazione di difficoltà non dipende dalle scelte del passato ma dal modo in cui si sta decidendo di uscire dalla crisi senza tenere conto dei contraccolpi di alcune decisioni prese o da prendere nella situazione attuale.
In Mps lo Stato Italiano sta perdendo 5,5 miliardi dei 6,9 investiti nel 2016 con il decreto di nazionalizzazione.
Oggi il 100% della banca vale 2 miliardi ed il 68,24% in mano al Tesoro corrisponde a circa 1,36 miliari. Sono quindi stati persi circa 5,6 miliardi di €.
A inizio giugno, quando si è insediato il nuovo governo, Mps valeva 3 miliardi: in quattro mesi e mezzo è stato bruciato un miliardo di capitalizzazione di cui 68% in mano allo stato.
Ricordiamo che entro il 2021 lo Stato, come concordato con la UE dovrà uscire dal capitale della banca ma già da giugno 2019 dovrà essere definito il percorso per la sua privatizzazione.
La via maestra da seguire, per tale banca oramai divenuta poco più di una rete distributiva, avendo ceduto quasi tutte le società prodotto nel frattempo, è quella di un’aggregazione.
Una aggregazione-fusione che però risulta ora più difficile dal rialzo dello spread che ne sta erodendo il patrimonio portandolo pericolosamente vicino ai minimi richiesti.
E allora chi avrà il coraggio di aggregarsi a queste condizioni? Potrebbe forse qualche banca estera farsi avanti a prezzi di realizzo? Od invece lo stato dovrà sborsare ulteriori quattrini direttamente o tramite partecipate come Poste Italiane o Cassa depositi e prestiti per difendere l’italianità?
Anche questo sforzo, con un Def in discussione per la difficoltà a reperire le coperture mancanti, potrebbe essere di difficile attuazione.
Questi sono gli effetti collaterali dello spread su tale banca, ma che riguardano anche tutti gli altri istituti di credito che non se la passano meglio, poiché non sufficientemente valutati.
Quindi aver dato più certezza ai mercati con il varo di un Def meno divisivo, lo avrebbe reso meno indigesto a livello di spread e avrebbe limitato i suoi effetti collaterali su cui governanti e opinione pubblica a nostro avviso sono al momento poco attenti.